Di Flavio Gagliardi

Sono molti i parametri chimico fisici che caratterizzano l’ambiente acquatico (temperatura, torbidità, pH, durezza, conduttività, salinità, intensità luminosa) e che quindi sono in grado di modificare significativamente la vita degli organismi che lo popolano. Fra questi il pH, pur essendo uno dei più importanti e noti, viene molto spesso arbitrariamente trascurato dagli acquariofili. Il pH è una grandezza che esprime l’acidità di una soluzione, o più specificatamente è una misura della concentrazione degli ioni idrogeno (detti protoni ed indicati con la sigla: H+) di una soluzione, sia essa l’acqua del nostro acquario o un’altra sostanza (caffè, succo d’arancia etc.). Visto che le soluzioni più spesso considerate sono molto diluite, la concentrazione di ioni idrogeno (espressa in chimica dalla seguente scrittura: [H+]) in esse è molto piccola (ad es. 0,01; 0,001; 0,0001) per cui si è adottata la convenzione di esprimere tale concentrazione in forma logaritmica (ovvero: pH= -log[H+]). Questo espediente consente di esprimere la concentrazione degli ioni idrogeno senza utilizzare forme numeriche esponenziali ed inoltre fornisce una scala di concentrazioni molto espansa. Tale scala si estende dal valore 0 (massima acidità, [H+]=1) al valore 14 (massima basicità, [H+]=10-14) e permette di definire acida una soluzione con pH compreso tra 0 e 7, neutra una soluzione con pH=7 e alcalina (o basica) una soluzione con pH compreso tra 7 e 14. Riferendosi a questa scala è possibile valutare con buona approssimazione l’esatto pH di qualsiasi sostanza mediante l’utilizzo di appositi indicatori.
Dopo questa dovuta premessa di chimica cerchiamo di mettere meglio a fuoco l’influenza del pH sulla vita dei pesci. Moltissimi studi scientifici hanno da tempo ampiamente documentato come la concentrazione degli ioni idrogeno sia un fattore in grado di condizionare la crescita, lo sviluppo ed in genere lo stato fisiologico dei pesci (Konstantinov et al., 1995). Ma perché differenti pH influenzano così drasticamente la vita dei pesci e di qualsiasi altro organismo acquatico? Per offrire una semplice spiegazione a tale domanda bisogna necessariamente calarsi nel mondo della biochimica. Come è già stato accennato il pH è una misura della concentrazione degli ioni idrogeno (o protoni) di una soluzione: a valori di pH basso corrispondono alte concentrazioni di protoni e viceversa. Tali protoni rappresentano le più piccole particelle che si possono trovare all’interno di una cellula e riescono ad attraversare la membrana cellulare (=la barriera che separa tra loro le cellule) con facilità. Ciò già ci da una idea di come una variazione di concentrazione di ioni idrogeno nell’acqua dell’acquario possa interagire con le membrane cellulari dei pesci, ad esempio con le cellule delle branchie che sono a diretto contatto con l’esterno, influenzando la fisiologia dell’animale. Se a ciò aggiungiamo che il pH di ogni cellula deve rigorosamente mantenersi all’interno di limiti ben definiti, soprattutto per fornire un ambiente favorevole alle attività enzimatiche, e che perfino piccole variazioni sono in grado di influenzare la stabilità delle proteine ed i processi metabolici (Hochachka e Somero, 1988), si comprende sempre meglio la reale importanza di questa grandezza.
Fra gli effetti del pH inadatto sui pesci è stata documentata la perdita di capacità di regolare la concentrazione degli ioni sodio (Na+) e degli ioni cloro (Cl-) nel plasma, con conseguente perdita di coordinazione (Leivestad e Muniz, 1976), ed anche una alterazione del metabolismo del calcio che comporta una ridotta funzionalità delle gonadi (=organi dell’apparato riproduttivo maschile -testicoli- e femminile -ovaie-), ripercuotendosi così negativamente sulla riproduzione (Beamish et al., 1975). Ma forse gli effetti più eclatanti del pH inadatto si osservano sulle uova e sulle larve dei pesci. Infatti l’involucro esterno delle uova (corion) è altamente permeabile ai protoni, per cui l’ambiente acquatico in cui l’embrione si sviluppa è fortemente influenzato dal pH. Si è osservato come uova di salmone atlantico (Salmo salar) e di trota iridea (Oncorhynchus mykiss) incubate a pH=5,5 mostrino una ridotta ritenzione di acqua e quindi una minore resistenza agli stress meccanici (Rudy e Potts, 1969). Se si pensa ora ai Ciclidi che depongono su substrato ed alla loro costante azione di pulizia delle uova, si comprende come una ridotta resistenza meccanica dovuta al pH inadatto possa inficiare il risultato finale di un accoppiamento. Ciò è altrettanto valido per i Ciclidi incubatori orali, vista la loro costante azione di ventilazione delle uova all’interno della cavità buccale.
Tuttavia gli effetti negativi del pH inadatto vengono spesso sottovalutati e si è più propensi ad invocare altre cause, magari visibili ad occhio nudo, di fronte a delle uova ormai irrimediabilmente compromesse. Un esempio credo molto efficace ci è offerto dalle classiche infezioni comunemente dette “saprolegnosi”, ovvero degli attacchi dovuti essenzialmente ai funghi Achlya hoferi e Saprolegnia parasitica, che spesso colpiscono le uova dei pesci. In questi casi siamo portati a considerare tali parassiti come la causa della morte delle nostre uova, poiché macroscopicamente ci accorgiamo solo di loro, ma in realtà sia la Saprolegnia che l’Achlya sono agenti infettivi secondari, ovvero sopraggiungono in seguito ad una qualsiasi forma di stress come il danno meccanico, l’aggressione batterica, uno sbalzo termico repentino o un pH inadatto (Post, 1987). Sempre per quanto riguarda le uova, va ricordato come un pH inadatto influenzi negativamente la funzionalità dell’enzima della schiusa (=enzima che permette all’embrione di rompere l’involucro esterno dell’uovo e per il cui funzionamento ogni specie di pesce ha un valore ottimale di pH), determinando cosi una % di schiusa ridotta od un estremo ritardo della stessa. Ma c’è di più! Il pH dell’acqua dove avviene l’accoppiamento dei pesci ha un ruolo fondamentale sulla percentuale di uova fecondate, poiché influenza la mobilità degli spermatozoi. Alcuni studiosi hanno documentato come nella trota iridea (Oncorhynchus mykiss) la percentuale di uova fecondate a pH=9,5 fosse del 90%, mentre a pH=7,3 scendeva al 50% (Inaba et al., 1958).
Questa piccola ed incompleta panoramica degli effetti del pH sui pesci potrebbe prolungarsi indefinitamente, ma penso che i pochi casi riportati siano già sufficienti a farci affrontare con rinnovata attenzione l’importanza di questa grandezza chimica. Ma quali sono i valori di pH più corretti per l’allevamento dei pesci? Una domanda come questa richiederebbe una trattazione vastissima. Sono comunque possibili delle semplici considerazioni generali. Ciascuna specie di pesce possiede un intervallo di pH all’interno del quale la qualità della sua vita è certamente definibile come migliore ed è ragionevole ipotizzare che tale intervallo vada ricercato nell’ambito di quei valori che hanno contribuito all’evoluzione della singola specie in esame, ovvero dei valori che noi ancora oggi rileviamo nei biotopi di provenienza. La strada da percorrere sembra quindi quella di fare riferimento a tali valori per ottenere dei risultati migliori. D’altra parte è spesso vero che si possono ottenere ottimi risultati nell’allevamento dei pesci impiegando valori di pH differenti da quelli “naturali”. Ciò tuttavia è possibile solo entro i limiti di tollerabilità ecologica, è principalmente dovuto alla estrema adattabilità dei pesci ed inoltre, come nel caso precedentemente accennato della saprolegnosi, si basa su indicatori macroscopici e non su rigorosi e più sensibili indicatori microscopici ed ultramicroscopici (come la mobilità degli spermatozoi, la qualità dell’uovo, la esatta percentuale di fecondazione, il tasso di anomalie scheletriche etc.).
C’è comunque dell’altro! Recenti studi condotti sulla carpa (Cyprinus carpio), sul pesce rosso (Carassius aurataus) e sull’alborella (Alburnus alburnus) indicano come le fluttuazioni del pH entro limiti “fisiologici” siano più positive per la crescita e lo sviluppo dei pesci piuttosto che un pH stabile, poiché esse sono la norma in natura e non l’eccezione, specialmente nelle acque dolci (Konstantinov et al., 1995). Gli autori sottolineano inoltre come nell’ambiente acquatico tutti i parametri siano più o meno soggetti a delle variazioni e ciò è facilmente comprensibile se si pensa ad esempio agli effetti che produce una piena sullo stato di un fiume (aumento della portata, aumento del materiale organico in sospensione, riduzione della luminosità, variazione della concentrazione di ossigeno etc.), oppure agli effetti che produce una fioritura di fitoplancton in un lago (variazione della concentrazione relativa di alcuni minerali disciolti, variazione dell’intensità luminosa, variazione del rapporto anidride carbonica/ossigeno con conseguente effetto sul pH, etc.). L’optimum ecologico non è quindi un optimum costante, ma la sua ottimale fluttuazione.


Bibliografia:

Beamish R.J., W.L. Lockart, J. van Loon e H. Harvey, 1975. Long term acidification of a lake and resulting effects on fishes. Ambio, 4, 98-102.
Hochachka P.e G. Somero, 1988. Biochemical adaptation. Mir, Moscow.
Inaba D., M. Nomuara e M Suyama, 1958. Studies on the improvement of artificial propagation in trout culture. II. On the pH values of eggs, milt, coelomic fluid and others. Bull. Japanese Soc. Sci. Fish., 23 762-765.
Konstantinov A.S., V.S. Vechkanov e V.A. Kuznetsov, 1995. Th e influence of pH fluctuation on growth of juvenile fish. Journal of Ichthyology, 35, 4, 46-55.
Leivestad e Muniz, 1976. Fish kill at low pH on a Norvegian river. Nature, London, 259, 391-392.
Post G., 1987. Textbook of fish health, revised and expandede. T.F.H. Publications Inc., 288 pp.
Rudy P. P. e W.T. Potts, 1969. Sodium balance in the eggs of Atlantic salmon, Salmo salar. Journal of Exp. Biol., 50, 239-246